I LIBRI DI GIORGIO BOCCA

IL PROVINCIALE 	
LE MIE MONTAGNE 	
STORIA D'ITALIA NELLA GUERRA FASCISTA

“Che ci faccio qui fra questi che non sono fuggiti [dalla “Granda”, come viene chiamata in Piemonte la provincia di Cuneo], spaesato nella città, spaesato fra loro?” Così scrive Giorgio Bocca in uno dei suoi libri più belli e segreti, Il viaggiatore spaesato (attualmente non disponibile). L’affermazione è meno sorprendente di quanto potrebbe sembrare a prima vista, pensando cioè al grande giornalista e scrittore recentemente scomparso. Perché Bocca sembrava, ed era anche, uomo tutto d’un pezzo, senza esitazioni o penombre esistenziali; a volte addirittura tranchant nei giudizi (ma aveva anche il gusto della provocazione e gli piaceva fare il Bastian Contrario). Come tutti quelli che la Resistenza l’hanno fatta sul serio, indipendentemente dall’orientamento politico e dalle diverse speranze per il “dopo”, era rimasto segnato da quell’esperienza: aveva chiaro il senso del giusto e dell’ingiusto, sapeva che l’etica è soprattutto mettersi deliberatamente e a proprio rischio in relazione con l’altro e col mondo e non conformarsi a valori dettati o imposti dall’esterno, era un uomo autenticamente libero e straordinariamente autentico anche negli errori, e per questo poteva talvolta sconcertare. E offrire pretesti all’ipocrisia di colleghi e avversari. La Resistenza era stata per lui, come per molti altri, sacerdoti compresi, quindi già al servizio di un’idea se non di una trascendenza, un habitus mentale, una chiave per interpretare vita e storia, un portolano per valutare uomini e mondo.

Eppure ci sono pagine di Bocca che ne rivelano il nucleo nascosto: non il dubbio o l’incertezza, che non erano nella sua indole, piuttosto una delicatezza di sentimenti, una sensibilità, soprattutto per lo spettacolo della natura, un’attenzione ritrosa verso le persone care: disposizioni tutte tenute sottotono per pudore montanaro o contraddette da guizzi di ironia ma ben vive e attive dentro di lui. Da questo punto di vista ricordava uno di quei personaggi di Fenoglio, non per caso quasi conterraneo, bruschi e teneri, che affermano negando, come nei sintomi cari agli psicoanalisti. Suggerisco di leggere libri come Il provinciale o il già ricordato Viaggiatore spaesato o Le mie montagne, importanti anche dal punto di vista letterario. La consueta concretezza si allarga qui a una lucidità autobiografica mai narcisistica ed esibita: anche quando, quasi per svista, parla di sé, Bocca è sempre proiettato all’esterno e l’interiorità si declina nello stile, nel colore della frase più che nella cosa detta.

Doti di scrittura che si palesano in moltissime delle migliaia e migliaia di pagine scritte nel corso di una vita più che operosa, vissuta all’insegna della passione civile e della curiosità per tutto ciò che succede nel mondo: dalle inchieste giovanili in Val d’Aosta per la «Gazzetta del Popolo» di Torino (memorabili certi reportage di “nera”) alle grandi cronache del boom economico in un’Italia percorsa in auto da Marsala a Bolzano, ogni giorno un articolo (La scoperta dell’Italia, pubblicato da Laterza nel 1963 e purtroppo esaurito da tempo) e via via scoscendendo fino ai cupi anni della recente storia italiana, in cui il vecchio partigiano vedeva, giustamente, soprattutto malaffare e stupidità e catastrofe democratica. Negli articoli Bocca aveva il grande dono della sintesi: a volte forse semplificava troppo, in compenso andava dritto al punto, senza perdersi in dettagli superflui o pseudoletterari; anche in questo è stato un grande maestro di giornalismo.

Poi ci sono i libri di divulgazione storica (attualmente tutti Oscar Mondadori), come quello, molto controverso perché eterodosso rispetto alla vulgata ufficiale, su Palmiro Togliatti e la trilogia Storia dell’Italia partigiana, un’appassionata ricostruzione della Resistenza in chiave di epopea popolare, uscita nel 1966 e tuttora indispensabile per un primo approccio a quegli anni, Storia d’Italia nella guerra fascista (1940 – 1943), che disegna il ritratto della società italiana di quel periodo tragico e contraddittorio, e La repubblica di Mussolini, sui 20 mesi della repubblica di Salò, considerato fazioso da quanti pensano che sia doverosa una “memoria condivisa”: si possono condividere il dolore e il lutto, si può condividere una reciproca pietà, si possono conciliare antichi e anacronistici rancori (l’hanno fatto emblematicamente per tutti il volontario di Salò Carlo Mazzantini e il gappista di via Rasella Rosario Bentivegna: C’eravamo tanto odiati, Baldini e Castoldi), non è però possibile e giusto equiparare e far coincidere scelte di campo cruciali e opposte.

Bocca non odiava, forse non ha mai odiato, nemmeno nel fuoco della lotta partigiana, sui monti della Val Maira: era un combattente, aveva scelto di combattere il nazifascismo. Aveva scelto la parte storicamente giusta, non perché si rivelò poi quella vincente (c’è giustizia e nobiltà anche nella sconfitta), ma semplicemente perché, in quel momento storico, era la parte dell’umanità contro la violenza barbara e disperata. Poi la storia deluse, come suole, quello slancio appassionato. Forse anche per questo Bocca rimase quel provinciale spaesato, ruvido e solitario, curioso di tutto e per tutto ansioso, che si scopre all’improvviso, quasi a contraggenio: “Io passo per un duro, la gente dice ancora di me: «Lui è una roccia», e io mi sento fragile come un vetro appena soffiato.”

In due parole: A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così. (Eugenio Scalfari)

Scheda di GIANANDREA PICCIOLI

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