Io sono Malala: quando le parole sono più forti delle armi

9788811682790Circa 150mila istituti privati si sono uniti in un’associazione, la Federazione delle scuole private pakistane, per organizzare una giornata contro Malala Yousafzai, la diciasettenne pakistana attivista per i diritti all’istruzione delle bambine. La giornata programmata dal Pakistan estremista e svoltasi lunedì, è stata chiamata “I am not Malala” per contrapporsi al titolo della biografia della ragazza, intitolata “Io sono Malala”.
Diventata simbolo della lotta per l’istruzione delle donne e candidata per il riconoscimento già nel 2013, Malala Yousafzai è la più giovane vincitrice della storia del Premio Nobel per la Pace.

“Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo.”

Malala scrive e racconta la guerra vista con gli occhi dei più piccoli, parlando del divieto di uscire per strada, del rumore delle bombe, del coraggio del preside della scuola che decide di riaprirla nonostante il divieto imposto dall’editto degli estremisti islamici. Tiene un diario quotidiano che invia puntualmente al blog in urdu della BBC, raccontando al mondo il suo desiderio di studiare e la sua voglia di essere libera.
Il 9 ottobre del 2012 nella valle dello Swat, in Pakistan, i talebani sparano a Malala colpendola alla testa mentre si trovava su un vecchio autobus insieme alle sue compagne per far ritorno a casa dopo la scuola. Appena quindicenne, Malala aveva già “gridato” la sua rivoluzione. E per i talebani lei meritava di morire, perché colpevole di promuovere “il pensiero occidentale”. Ma Malala guarisce e diventa il simbolo universale delle donne che combattono per il diritto alla cultura e al sapere.

“Sedermi a scuola a leggere libri è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio. Io sono Malala. Il mio mondo è cambiato, ma io no.”

Dopo un delicato intervento al Queen Elizabeth Hospital, dal quale fu dimessa l’8 febbraio del 2013, il 19 marzo di quello stesso anno Malala riuscì a tornare fra i banchi in una scuola superiore per ragazze, la Edgbaston High School. Dopo la sua guarigione, infatti, la giovane attivista ha potuto cominciare una nuova vita che è iniziata appunto con il trasferimento di tutta la sua famiglia a Birmingham, in Inghilterra.

Negli ultimi anni Malala ha incontrato diversi personaggi noti, da Barack e Michelle Obama che l’hanno ricevuta nello Studio ovale della Casa Bianca l’11 ottobre del 2013 in occasione della Giornata internazionale dei diritti per le bambine, alla regina Elisabetta che l’accolse a Buckingham Palace il 18 ottobre dello stesso anno. Molti sono stati anche i riconoscimenti ricevuti da Malala per il suo impegno: il Pakistan’s National Youth Peace Prize come riconoscimento per il suo coraggio e il suo impegno in favore dei diritti delle donne nel 2011, il premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2013 e il già citato Nobel per la Pace 2014 come riconoscimento per la “lotta contro la repressione dei bambini e dei giovani per i diritti di tutti i bambini all’istruzione”.

Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e l’istruzione delle donne di Malala Yousafzai e Christina Lamb, edito da Garzanti, è la storia della coraggiosa vita di una ragazza che combatte per cambiare il mondo. Una versione della storia per i più piccoli è stata inoltre edita da Mondadori nella collana Oscar Junior e s’intitola Storia di Malala, di Viviana Mazza.

“Il giorno in cui tutto è cambiato era martedì 9 ottobre 2012: di certo non il giorno migliore, dato che eravamo sotto esami, anche se io, da vera secchiona, non ero preoccupata quanto le mie compagne. Quella mattina raggiungemmo lo stretto vicolo fangoso vicino a Haji Baba road con la solita processione di risciò variopinti sputacchianti diesel bruciato, ognuno carico di cinque o sei ragazzine. Da quando i talebani erano saliti al potere, la nostra scuola non aveva un’insegna e la porta in ottone decorato, che spiccava nel muro bianco di fronte al deposito di una segheria, non lasciava intravedere nulla di ciò che accadeva all’interno.
Per noi ragazze quella porta era come una magica soglia che portava al nostro mondo speciale. Appena entrate, ci toglievamo subito il velo, come quando un soffio di vento spazza via le nuvole per fare posto al sole, poi correvamo su per la scala saltando i gradini a due a due. In cima alla scala c’era una terrazza su cui si aprivano le porte delle aule: buttavamo per terra gli zaini nelle classi e ci preparavamo per l’adunata mattutina all’aperto, sull’attenti, con le montagne alle nostre spalle.
La scuola era stata fondata da mio padre prima che io nascessi, e sul muro sopra le nostre teste svettava ancora, in orgogliosi caratteri bianchi e rossi, la scritta Khushal School. Avevamo lezione sei mattine alla settimana e io, avendo quindici anni, ero iscritta alla nona classe: durante le lezioni ripetevamo formule chimiche e studiavamo la grammatica urdu, scrivevamo brevi racconti in inglese – che terminavano spesso con morali tipo: «Presto e bene non stanno insieme» – e disegnavamo diagrammi della circolazione sanguigna (la maggior parte delle mie compagne sognava di diventare medico).
[…]
Ricordo che nel dyna l’aria era calda e appiccicosa. Il retro del furgoncino non aveva i finestrini, solo dei riquadri di plastica rigida che sbatacchiavano, troppo ingialliti e polverosi perché potessimo guardare fuori. Vedevamo solo un francobollo di cielo attraverso l’apertura posteriore, che a tratti ci permetteva anche di cogliere un bagliore del sole: a quell’ora del primo pomeriggio era una sfera gialla galleggiante nella polvere che ricopriva ogni cosa. Il dyna si fermò all’improvviso. Un giovane barbuto, che indossava abiti di colore chiaro, era fermo in mezzo alla strada e aveva fatto cenno al nostro autista di fermarsi.
«È questo l’autobus della Khushal school?» chiese l’uomo a Usman Bhai Jan – che sicuramente la trovò una domanda sciocca, dato che il nome era scritto sulla fiancata.
«Sì» rispose.
«Ho bisogno di informazioni su alcune ragazze» disse il giovane.
«Allora dovrebbe andare in direzione» replicò Usman Bhai Jan.
Mentre i due parlavano, un altro giovane vestito di bianco si avvicinò alla parte posteriore del mezzo.
«Ehi, dev’essere un altro di quei giornalisti che ti vogliono intervistare!» esclamò Moniba.
Da quando avevo cominciato a parlare nei comizi organizzati da mio padre per la campagna a favore dell’istruzione femminile e contro tutti quelli che, come i talebani, vorrebbero tenerci chiuse in casa, mi capitava spesso di parlare con dei giornalisti, anche stranieri. Ma di certo non somigliavano affatto ai due tizi che ci avevano bloccate in mezzo alla strada. Il secondo uomo indossava un tradizionale copricapo di lana e si era legato un fazzoletto sulla bocca e sul naso, come se avesse l’influenza. Sembrava uno studente universitario. Saltò sul predellino posteriore e si chinò su di noi.
«Chi è Malala?» chiese.
Nessuna rispose, ma molte delle mie compagne si voltarono automaticamente verso di me. Ero l’unica a viso scoperto. A quel punto l’uomo mi puntò contro una pistola nera.”


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